Intervista: Fabrizio Saiu e la risonanza dello spazio

Boy in pyjamas, autoscatto,

Fabrizio Saiu è un artista a tutto tondo che, partito dallo studio della batteria, è gradualmente arrivato 
all'arte performativa attraverso una ricerca continua volta alla sperimentazione totale.  
Ecco l'intervista.

Immagina di avere davanti a te un bambino, spiegagli di cosa ti occupi.
Mi occupo di tante cose. Leggo, scrivo, suono e insegno musica, fotografo, faccio dei video, quando posso seguo concerti, ascolto musica e visito le mostre. Tutte queste attività costituiscono una parte fondamentale della mia vita. Da qualche anno sono interessato ai legami tra musica e altre attività come scrivere, ascoltare, spostare oggetti, correre, cadere o stare fermi, parlare, cantare e passeggiare. In 22 days here, una sound-performance che ho realizzato nel 2012, si possono sentire i suoni prodotti da tantissime azioni differenti, compiute in solitudine o in gruppo: avevo programmato ogni singola registrazione e in base all’ora, al giorno e al luogo scelti, accendevo il registratore, che portavo sempre con me, e registravo quanto accadeva. Per alcuni giorni avevo deciso anche quale tipo di azione dovevo compiere durante la registrazione: la ricerca di un testo inesistente o l’ascolto di una conferenza di filosofia. É stato un modo per fare un omaggio a John Cage per il centenario dalla sua nascita. É stato divertente.

La tua carriera artistica è cominciata quando hai scoperto la batteria…
È accaduto dopo. Se invece ti riferisci alla passione per la musica, questa è nata intorno agli anni 95/96 quando da bambino seguivo mio padre nei suoi concerti fino a quando non ho incanalato questa passione nello studio della batteria, intorno al 99. Seguire mio padre fu certamente un insegnamento grandissimo, ero piccolo e vivevo quelle serate di musica nel modo più avvincente possibile. Stavo sempre attaccato ai fonici e a tutti i musicisti del gruppo, soprattutto al batterista che assistevo meticolosamente nel montaggio e nella microfonazione della batteria e durante il soundcheck. Poi arrivava il concerto e lì assistevo con grande attenzione e partecipazione. Il mio primo insegnante è stato Emanuele Murroni, un percussionista di formazione classica molto attento anche alla musica pop e latina, al jazz e alla fusion e mi ha trasmesso l’attenzione per le caratteristiche timbriche del suono e per l’improvvisazione musicale. Parallelamente ai suoi insegnamenti suonavo con mio padre in trio. Fu anche quello un periodo di grande formazione, una sorta di laboratorio di composizione e improvvisazione rock-jazz. Il primo vero lavoro è arrivato nel 2006 quando ho collaborato all’incisione del primo disco di Francesco Saiu e Pietro Ballestrero con Achille Succi al clarinetto basso e Aya Shimura al violoncello; ho iniziato poi a lavorare come concertista e come insegnante a tempo pieno.

A un certo punto però la batteria non era più sufficiente e hai iniziato a cercare “rumori” (correggimi se sbaglio), per ampliare la gamma di suoni utilizzabili..
Gradualmente mi avvicinai al jazz, anche sotto l’influenza di mio fratello a cui devo molto, e iniziai così la mia frequentazione dei seminari estivi di Nuoro Jazz e Sant’anna Arresi Jazz, dove incontrai musicisti che suonavano la batteria utilizzando dei metalli disposti sui tamburi, piatti forati o parzialmente tagliati per ottenere suoni particolari. Tra questi, Andrea Ruggeri fu un esempio chiaro e lampante. Cominciai anche io a lavorare sul suono in quei modi. Nel 2004, l’incontro con Roberto Dani mi traghettò, in maniera direi definitiva, verso una sconvolgente concezione del suono, basata non sulla mera modificazione degli strumenti del set mediante sovrapposizioni di oggetti, o veri e propri interventi sulla loro materia fisica, bensì attraverso una profonda attenzione al movimento del corpo, alla gestualità corporea, e alle modalità di contatto tra il corpo e lo strumento, coniugata con una  concezione del suono come processo compositivo/improvvisativo in costante movimento. Questa visione assolutamente sconosciuta alla didattica della batteria, di stampo prevalentemente americano, se adottata è capace di smontare l’intera concezione dello strumento e insieme l’intera concezione del suono e del fare musica, in solo come in gruppo. Ciò significa far saltare in aria la batteria per starci dentro in un altro modo o sacrificarla definitivamente; in questo modo ebbe inizio la mia ricerca –maniacale- sulla struttura dello strumento e, dopo molti tentativi (alcuni buoni altri meno), la sua/mia graduale sacrificazione.

Il tuo percorso ti ha portato a diventare un artista performativo a tutto tondo, in cui la musica è sì presente, ma non è più l’unico strumento che utilizzi per esprimerti (il concerto classico con chitarra, basso, batteria per intenderci, non è ciò di cui ti occupi oggi)
 Sì, era in qualche modo inevitabile. Era quanto potevo fare, né più né meno.
In questo senso oggi ho quasi completamente abbandonato l’idea di tornare a suonare la batteria in un gruppo o in solo. Ci ho provato, anche con piacere, ma le cose non sono andate avanti. É una strada che mi appartiene, ma che non percorro più nello stesso modo, mentre l’’insegnamento della batteria mi appassiona moltissimo. Insegno a suonare la batteria ma contemporaneamente cerco costantemente altro; davanti alla batteria vedo altro. Proprio questo “altro”, che è già nella batteria, diviene materia fertilissima per la didattica, per la relazione con gli allievi, e stabilisce molteplici connessioni con altre pratiche (di qualsiasi genere, non solo artistiche).

Il tuo primo progetto in questo senso?
Nel 2010 con Objet sans corps, realizzato in collaborazione con Paolo Asaro, fissavo il primo passo disperato e liberatorio verso una concezione del suono assoggettata al movimento, provocato a sua volta dallo spazio nel quale agivo (e che, a rigore di concetto, mi agiva). C’era in questo tentativo, in questo salto, tutto un discorso del negativo, una dialettica della sottrazione che operava all’interno del processo di produzione del suono, una riduzione ai minimi termini dei fattori che concorrono alla generazione del suono: il corpo, lo spazio e alcune materie (una lastra, due martelli, due spatole, due stecche di acciaio, una cazzuola). Il suono, risonanza dello spazio, non era più inteso come suono dell’oggetto, dello strumento, ma dello spazio per l’appunto che era in qualche modo una dimensione totalizzante non divisibile in parti, in perenne movimento e collisione con se stesso, una centrifuga.

Child of Tree, me ne vuoi parlare?
Child of Tree è una composizione di John Cage del 75 che intreccia l’alea all’improvvisazione e si concentra su tre concetti fondamentali: struttura, durata, e strumento. Non posso entrare nel dettaglio di come queste tre dimensioni siano trattate dal compositore, ma posso dire che è su queste che ho lavorato, in modo critico, per la performance Getting Through “Child of Tree”, letteralmente Attraversando Child of Tree. Il risultato è una performance collettiva basata sulla relazione (a un tempo contatto e distanza) tra la pratica di lancio del frisbee e la pratica rituale della processione, intese come due modalità di vivere e agire lo spazio, ma anche come due modalità di confrontarsi con la meta, col punto di arrivo, con la fine di un percorso. GTCOT può essere performata in qualsiasi spazio organizzato in un percorso avente un inizio e una meta. Nella fase iniziale il percorso ha un carattere “pedagogico” – in questa illustro alle persone come suonare i piatti durante la processione, come lanciare il frisbee, come registrare e filmare, una sorta d’introduzione alla struttura normativa di ogni pratica. Nella meta invece l’azione è completamente indeterminata e basata sulle caratteristiche del luogo. Può accadere di tutto, un happening, un concerto, una partita, una chiacchierata o tutto questo assieme. Durante il percorso le diverse pratiche si sovrappongono fra loro e si disattivano reciprocamente provocando il performativo. Di fatto non si fa né una processione né una partita a frisbee né una documentazione della performance. Accade il performativo che non è la performance e neanche la performing art. É un lavoro basato sul rapporto tra differenti campi normativi e sulla loro reciproca dis-attivazione.


Still Métron
Immagina di avere davanti a te a Jean Paul Sartre (o qualche altro pensatore se preferisci), spiegagli di cosa ti occupi.
Mi metti in una difficile situazione. Posso dirti che attualmente sto trovando interessante lavorare attorno alla definizione che Giorgio Agamben propone della Klēsis messianica paolina; essenza della vocazione messianica (Klēsis) è la modalità del come non  «piangenti come non piangenti» che non va intesa, scrive Agamben, con «piangenti come ridenti», ovvero  la vocazione non va né verso un altrove né si esaurisce nell’indifferenza di due opposti. É in qualche modo ciò che accade nelle tre pratiche di GTCOT, che proprio nella loro disattivazione sono attivate divenendo così performative piuttosto che performanti. In un certo senso l’Hōs me (il come non) paolino è la modalità del restare nell’atto, non una funzionalità dell’atto, non un muovervi verso, ma un modo di restare, una trasformazione che non implica l’abbandono di qualcosa o di qualcuno, bensì un movimento che è una permanenza. É in questo contesto che si ha l’attivazione dell’atto mediante la sua disattivazione. Nessun processionante smette di essere processionante, come nessun giocatore smette di essere giocatore. Tuttavia sia l’uno che l’altro stanno nella pratica in una modalità performativa, ovvero la compiono in una sospensione. É su questa concezione del performativo, coniugata al pensiero delle pratiche di Carlo Sini, che tratta il concetto di pratica come intreccio complesso di scritture, che sto articolando l’attuale percorso di ricerca.

Dove possiamo vederti all’opera?
Sicuramente sul web, sia su fabriziosaiu.com che su aboutobjetpetita.tumblr.com, e ovviamente sui miei canali Vimeo e Youtube. Proprio di recente ho caricato il teaser di Métron, performance realizzata il 10 Maggio con Paolo Pãx Calzavara presso la A+B Gallery, a Brescia. Si tratta del mio/nostro ultimissimo progetto.

Progetti futuri?
Sto lavorando sui video di Getting Through “Child of Tree”. In questi giorni sto ricevendo i materiali documentati dai partecipanti alle performance. Ho intenzione di fare un video sul performativo basandomi su alcune categorie concettuali sulle quali ho elaborato la performance: durata, inquadratura, meta, etc...
Il 23 luglio farò una performance, in collaborazione con gli artisti Francesco Fonassi e Tonylight, per il Musical Zoo Festival presso il Castello di Brescia. L’azione è stata commissionata da due importanti realtà legate all’arte contemporanea, il Linkartcenter e la A+B. Vi consiglio di cercarle sul web. Stanno facendo, in modi differenti ma con il medesimo spirito e passione, un lavoro molto importante sia sotto il profilo della ricerca artistica che su quello della diffusione del lavoro di giovani artisti. Ci sono poi alcune collaborazioni con il teatro e con la danza e un nuovo lavoro in solo sul quale per il momento terrò il segreto.

Foto di Alessandro Ligato
Interessante studio quello di Fabrizio Saiu: curioso, intricato eppure una volta compreso risulta essere perfettamente logico e lineare. Il suo è un percorso a tappe, intese come graduali evoluzioni e scomposizioni del suono in completa fusione con lo spazio circostante. Bravo! 


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