Il coraggio di Ray Davies

Questi giorni chiacchieravo con Francesco Tocco, Leader dei The Wheels, che stanno per pubblicare il loro secondo album, un interessante Ep che ho avuto il piacere di sentire in anteprima. Io e Francesco abbiamo in comune la passione per le biografie e lui è un pozzo inesauribile di aneddoti, curiosità e belle storie su tantissimi artisti. Ho così pensato di chiedergli di scrivere un guest post  a sorpresa per il Blog, lui ha scelto di parlare di uno dei personaggi più incredibili della scena musicale degli ultimi 50 anni: Ray Davies dei Kinks. 

Mi sono sempre chiesto quanto possa essere coraggioso e coerente portare avanti una propria idea artistica, infischiandosene completamente delle mode, delle tendenze, del favore del pubblico, delle recensioni e della propria vena egocentrica, sfidando  anzi  il proprio io, l’insuccesso e la derisione. Ray Davies è uno degli artisti che incarna maggiormente questa  attitudine, volta principalmente alla totale espressione di sé e della propria arte, in barba a qualsiasi condizionamento dettato dalla generazione o dal tempo vissuto. Voltando lo sguardo verso i “favolosi anni ‘60” mi sono fatto un’idea precisa riguardo a quell’uomo, tanto da pensare che ci volesse proprio del fegato ad essere Ray Davies sul finire di quegli anni. Naturalmente qui non si parla di quel genere di coraggio fatto di muscoli o di imprese eroiche alla  Rambo, ma  della  sicurezza  di potersi  sottrarre  al volere della massa, alla totale lontananza dalle serate glamour o dai lustrini in uso ai dinosauri del rock.
Il 1968 vede la pubblicazione  di “The Kinks are the village green preservation society”, che seppur oggi considerato una pietra miliare  del pop/rock, all’epoca fu uno dei più  disastrosi flop dell’industria musicale, con appena 100.000 copie vendute in tutto il mondo.  Stiamo parlando di un periodo nel quale il mondo musicale offriva  quanto di meglio ci si potesse aspettare tra psichedelia, supergruppi, cantautori, festival  ed una prima ondata di  sperimentazione elettronica. Il mondo extra-musicale andava anch’esso spedito tra il boom economico, uomini sulla luna (chissà …) e una generazione di giovani che lottava  per i propri diritti contro il vecchio e antiquato sistema. Seguire la corrente doveva sembrare naturale e vitale, ma sicuramente più  coraggioso doveva essere fermarsi e seguire la propria personale integrità artistica. Ray Davies in questo sembra non essere mai sceso a compromessi  anzi, ad un mondo ebbro e smanioso di futuro  risponde nel 1968  con “Village Green”, un album nostalgico verso un antico mondo inglese fatto di casette, campanili e gite sul fiume, tradotte musicalmente  in un magnetico alternarsi di music-hall, folk ,blues e marce militari.  Il risultato di tale scelta fu evidentemente disastroso, viste le scarse vendite e  la totale assenza del  disco dalla classifica inglese,  ma il seme buono produce sempre buon frutto tanto che ad oggi  “The village green preservation society” è  il disco più venduto dell’intero catalogo Kinks.
Nel 1969 la storia si ripete con  “Arthur (or the decline and fall of British empire)" un opera rock di  dura critica verso l’establishment inglese. Ray Davies rifiuta  nuovamente la facile  scalata alle  classifiche e, seppur con un incasso  maggiore rispetto al precedente, “Arthur” passa inosservato alla maggior parte del pubblico, anche a causa della sua  scarsa diffusione sulla radio nazionale inglese che boicottò il disco in quanto troppo polemico verso la corona.
A questo punto provo ad entrare nella psicologia del personaggio e mi chiedo cosa pensasse Ray Davies la notte prima di addormentarsi e  in che misura riuscisse a scindere la consapevolezza di aver sfornato due capolavori senza però avere riscontri di vendite ed essere perciò assente dalle copertine, dai grossi festival o dai party organizzati dalle star! Un comune mestierante a questo punto  avrebbe probabilmente dato fuoco agli strumenti e aperto un ristorante in centro, ma Davies ha sfoderato più vite dei gatti, portando avanti con coraggio la propria arte e idea musicale,  trasformandosi nel corso dei decenni in una vera icona del rock, vendendo milioni di dischi (anche con  canzoni meno ispirate)  e diventando  un faro per artisti di generazioni successive quali Paul Weller, Damon Albarn o Alex Turner giusto per citarne alcuni.  
La storia è piena di grandi personaggi e artisti incompresi, snobbati e dimenticati, ma fortunatamente  la sincerità artistica è ancora in grado di pagare con ritorno di pubblico, in termini di apprezzamento e rispetto. Ancora meglio, dunque ancora più prezioso, se quel riconoscimento non solo arriva dalle generazioni che in quel tempo non lo hanno riconosciuto,  ma da quelle presenti a cui il grande merito di essere stati se stessi ha avuto la forza di arrivare intatto. È proprio il caso di dirlo: God save the Kinks.

Opinione che non può che essere ben accolta da tutti i fans dei Kinks, il genio dopotutto indica la strada, non la segue..























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