Intervista. Patrizio Fariselli dagli Area all'Albero Azzurro
Ascolto gli Area international POPular Group da sempre. Il primo post di questo Blog è dedicato a loro, (è una recensione di Arbeit Macht Frei, il loro disco d'esordio). Gli Area li ho anche visti qualche anno fa in un bellissimo anfiteatro. Era Ferragosto ma l'anno è incerto, forse il 2009. Poi ho deciso che avrei provato a intervistare Patrizio Fariselli e ci sono riuscita; quella che state per leggere è una delle più belle chiacchierate che io abbia mai fatto. Dopo mezzo minuto Patrizio mi ha chiesto di dargli del Tu e la conversazione è diventata semplicissima. Tra una domanda e l'altra c'è stato anche spazio per risate e commenti fuori programma.
Quanto è importante
per te l’indipendenza musicale dai generi, dalle strutture, non solo con gli
Area ma in tutta la tua carriera? Ascoltando i tuoi lavori e leggendo la tua
biografia si nota che hai spaziato tanto…
Ci soni molti modi di intendere l’indipendenza: secondo me,
è prima di tutto uno stato mentale, un atteggiamento nei confronti del mondo che
prevede onestà intellettuale e rispetto, anche per se stessi.
Poi si tratta di difendere il proprio lavoro dalla prepotenza del mercato,
cercando nuovi percorsi al di là del cosiddetto trend, che spesso si rivela di
una banalità musicale desolante.
Sono comunque tanti gli artisti che tentano di autodeterminarsi, diffondendo il
proprio lavoro con le proprie forze, ma non è facile.
Altrimenti c’è omologazione…
Esatto. Chi invece cerca il successo, e i profitti economici,
va a pescare dove i più gettano l’amo. Ma una delle prerogative dell’arte
dovrebbe essere proprio l’indipendenza.
Per un ragazzo che impara a suonare, è inevitabile essere influenzato da ciò che
fanno i suoi maestri; è naturale che nelle sue prime esibizioni si noti questa
dipendenza. In seguito, però, giunto alla maturità, è giusto che cerchi la via
a lui più congeniale, ed elabori un proprio pensiero musicale.
La seconda domanda è
una curiosità sul tuo modo di lavorare e comporre. Il mio ragionamento per
strutturare la domanda è partito dal concetto di musica come linguaggio
universale che si adatta a nascere sia dall’improvvisazione sia dalla
scrittura. Qual è il tuo modo di approcciarti alla composizione?
Io sono sostanzialmente un improvvisatore: mi piace trovarmi
davanti a un pubblico e buttarmi allo sbaraglio (ride) in una pratica musicale
immediata, che nel suo divenire contempla anche l’errore, alla ricerca di
qualcosa che possa definirsi musica. Del resto, dal mio punto di vista,
l’improvvisazione è la chiave stessa del fare musica, nel suo complesso. Ciò
che un compositore tradizionale chiama “estro creativo”, o “ispirazione”, io lo
chiamo semplicemente improvvisazione. Considero la composizione nient’altro che
un’improvvisazione sedimentata, ponderata, ampliata e rifinita.
Hai iniziato a
suonare giovanissimo, figlio d’arte sei cresciuto avvolto da note musicali,
hai suonato nell’orchestra di tuo padre e dopo il conservatorio nel ’72 hai
fondato gli Area International Popular Group. Quali erano le vostre intenzioni
quando avete iniziato a suonare assieme, nella fase embrionale? Cosa vi
aspettavate da questa unione?
È una domanda che richiederebbe una risposta un po’ articolata…
ma, in estrema sintesi, c’era la volontà di creare una musica indipendente,
come dicevamo prima, ma anche l’esigenza di dire qualcosa di significativo. Il
gruppo doveva essere un organismo che ci rappresentasse nell’insieme, al di là
delle singole personalità. Anche se, naturalmente, ci tenevamo a dimostrare il
nostro talento, questo doveva risaltare come contributo al lavoro collettivo. Fu
per rinforzare questo concetto, l’importanza della collaborazione, che
scegliemmo di veicolare contenuti non solo poetici, ma anche sociali.
Avete rispettato
appieno i vostri intenti… Gli Area sono una delle pagine più belle e UNICHE
della musica italiana – e non solo- siete una mosca bianca, portate
l’ascoltatore in una dimensione di attenzione assoluta e poi siete ancora così attuali.
Trapela in voi un interesse per la musica dei Balcani e in
generale per quella popolare, me ne vuoi parlare?
L’origine di questo interesse è nato dal piacere di suonare
tempi dispari, ritmi non usuali, che ci dessero l’opportunità di uscire dagli
schemi in cui la musica occidentale è in gran parte intrappolata.
Demetrio, che fino a quel momento aveva rivolto lo sguardo a ovest, verso gli
Stati Uniti, verso il rock anglosassone, a un certo punto diresse la sua
attenzione ad est, alla riscoperta delle proprie origini. Assieme, cominciammo lo
studio delle musiche balcaniche e mediterranee, e così, giocando, come sempre
quando si fanno le cose serie, scrivemmo e rielaborammo molti brani. Il nostro primo
pezzo, “Luglio, agosto, settembre (nero)” fu così importante per noi che continuo
ad eseguirlo ancora adesso, dopo quarant’anni. Anche perché, purtroppo, la
situazione in Palestina è ancora di drammatica attualità.
Eravate molto giovani
ma con le idee chiarissime… Indubbiamente avevate già un percorso artistico
alle spalle, maturi per spaziare con la mente e creare cose
così nuove e importanti.
Ti ringrazio. Tieni presente che io, lì in mezzo, ero il più
giovane; gli altri avevano quattro o cinque anni più di me (ride).
La prossima domanda è
una riflessione sul periodo in cui avete iniziato a suonare, ovvero sulla fine
degli anni ’60 e soprattutto sugli anni ’70. Io son molto appassionata di
questo periodo però mi provoca una sensazione contrastante. Sembra sia stato
utopico, tutta la sua energia e la potenza intellettuale si è come
volatilizzata…
Ogni tanto le società vivono delle ondate di innovazione e di
civiltà, ma queste sono sempre il frutto di una diffusa coscienza politica e dell’impegno
di molte persone. Quando invece si danno le cose per scontate e ci si rilassa,
presto si assiste al ritorno dello status reazionario perché il potere ha una
lunga esperienza e impara dai suoi errori, facendosi sempre più insidioso.
Musicalmente, gli anni ’70 sono stati di una fertilità estrema. Erano ancora in
attività i grandi maestri del novecento, musicisti straordinari, di generi
completamente diversi, Stravinskij, Duke Ellington, Cage, Miles Davis, oltre ai
grandi gruppi rock…
Ma furono anni importantissimi soprattutto dal punto di vista sociale: qui in
Italia c’era una spinta incredibile verso l’aggregazione e si usava la musica
come pretesto per stare assieme. Sembrava che una nuova società fosse ormai
imminente: metà del paese stava a sinistra e agli scioperi si vedeva una
partecipazione altissima. Pareva che di lì a poco l’Italia avrebbe finalmente applicato
la Costituzione, guadagnata con tanta fatica. Invece i vertici del partito
comunista e dei sindacati avevano già abbandonato quel sogno e si erano
spostati sempre più al centro, condividendo con i democristiani le politiche di
austerity e le leggi repressive contro i giovani della sinistra
extraparlamentare che, giustamente, non accettavano questo tradimento. Purtroppo
erano troppo divisi per formare un’alternativa.
I fatti dell’ultimo festival del parco Lambro mostrarono tutte le
contraddizioni interne al movimento. Poi ci fu la svolta autoritaria del
“gladiatore” Cossiga e la feroce repressione del settantasette, con centinaia di
arresti, che segnò la fine del movimento. A quel decennio di lotte, si pose letteralmente
una pietra sopra con la bomba alla stazione di Bologna, nell’80.
Poi, dopo il bastone, arrivò la carota, e con l’avvento delle tv e delle radio
commerciali in pochissimo tempo l’interesse per il sociale svanì completamente,
lasciando tutti basiti, in primis il sottoscritto.
Con gli Area eravamo rimasti fuori dal giro per diversi mesi, impegnati in tour
teatrali, e quando tornammo trovammo una società completamente cambiata, in cui
dilagava il narcisismo più idiota e un individualismo suicida.
Gli anni ’80 sono
quelli di MTV, in cui il concetto di musica diventa massificato e televisivo
Una fase tutt’ora in atto. Esiste una precisa volontà di colonizzare
l’immaginario dei ragazzi, e non solo, con una visione del mondo falsamente
ludica e liberatoria, ma che in realtà è solo consumistica e reifica ogni
aspetto della realtà, riducendola a mero spettacolo, secondo le più
pessimistiche previsioni di Débord.
Dal punto di vista politico, la situazione è quanto di peggio: il neoliberismo
nato in quegli anni è riuscito ad imporsi anche nei paesi europei con la
trappola del debito, provocato appositamente con la moneta unica. In nome di
un’ipotetica “Europa” stanno smantellando, una ad una, tutte le conquiste
sociali degli anni 70. Le privatizzazioni dei beni pubblici, perseguite sia
dalla destra che dalla sinistra, divenute indistinguibili, puntano alla
completa americanizzazione della società, dove prevalgono gli interessi delle
lobbies e il capitalismo più spietato. Sono molto, molto preoccupato, specie
per le nuove generazioni, ma confido nella saggezza di culture molto più
antiche di quella statunitense, che costituiscono la maggioranza dell’umanità e
fortunatamente hanno un’idea diversa e più profonda della vita su questo
pianeta.
Io non ho abilità
artistiche, non posso dare un contributo in questo senso, però mi piacerebbe sentire artisti culturalmente impegnati, come eravate e ancora siete
voi, e non mi riferisco solo al pensiero scritto e ai concetti verbali ma anche
alla musica che, in linea di massima, oggi è davvero banale
Il contributo culturale non è solo quello dell’artista che
compone ed esegue, ma avviene anche da parte
dell’ascoltatore. Questa cosa non va trascurata, è davvero importante
perché la musica non ha senso se non viene ascoltata. Il rito sociale del fare
musica si compie nella condivisione. Bisogna completare il cerchio. Quindi
anche tu, ascoltatrice, sei fondamentale in questo processo.
Nel dire questo
Patrizio non solo mi ha reso parte integrante della macchina musicale ma mi ha
fatto sentire necessaria. Non avevo mai pensato alla musica in questo senso; se
fossimo in quinto potere direi “anche le mie orecchie hanno un valore!”. Grazie
Maestro.
Avrei tante, troppe domande su Demetrio Stratos però mi limito a chiederti: che persona era nel quotidiano?
Era un ragazzo fantastico, allegro, colto, con un sacco di
interessi… che amava la vita. Eravamo molto legati ed esercitava su di me un
fascino notevole anche perché, quand’ero ragazzino, suonicchiavo con il mio
gruppo, i Telstar, i suoi pezzi dei Ribelli. Quando l’ho conosciuto, lui aveva già
alle spalle una carriera importante e per me era una star assoluta. Era anche
un grande narratore, ma la cosa che mi piaceva di più di Demetrio era la sua
curiosità. Riguardo al suo strumento, la voce, voleva conoscere tutto quello
che esisteva al mondo e trasformò la sua curiosità in ricerca. Quel percorso
l’ha portato lontanissimo dalle platee commerciali, e il suo rigore
intellettuale lo fece inoltrare per strade davvero impervie.
Ho seguito molte sue
interviste, letto vari articoli e lo studio sulla voce di Demetrio è davvero
molto interessante e affascinante
Oggi, a livello internazionale, ci sono molti artisti che
hanno affrontato la vocalità in modo non convenzionale, portando avanti la sua
ricerca di 40 anni fa. Se fosse ancora tra noi sarebbe andato davvero lontano.
Poi abbiamo esitato entrambi
un attimo, zitti per qualche secondo perché quando si nomina Demetrio a un certo punto piomba sempre il silenzio...
Un altro tuo amico artista era Gianni Sassi, mi racconti qualcosa di lui?
Era una persona dal carattere complesso, non sempre facile, ma
incredibilmente stimolante. Abbiamo sempre considerato Gianni un membro degli
Area, anche se non appariva nelle foto e si firmava con uno pseudonimo,
Frankenstein. Divenne il nostro paroliere e si inventò discografico per
pubblicare il nostro primo disco, Arbeit macht frei. Introdusse il metodo nel modo
di lavorare del gruppo: il piacere di fermarsi un momento, posare gli strumenti
e ragionare attorno a un tavolo su dei concept. A quel punto, durante una
riunione, proposi di schierarci politicamente, e lui ne fu entusiasta. Gli
brillarono gli occhi e cominciò la festa.
Parliamo di carriera
solista, non si può certo dire che il tuo sia stato un percorso a senso unico, tra gli appunti ho scritto solo “da
antropofagia all’albero azzurro”
Anch’io ho molteplici interessi che mi hanno portato a fare
musica non solo d’arte, ma anche d’uso: colonne sonore per il cinema, il
teatro, i cartoni animati e la danza. Negli anni ‘80 lavorai quasi
esclusivamente come compositore e per quasi 10 anni abbandonai il palcoscenico.
Negli anni ’90 ebbi l’occasione di lavorare alla RAI per l’Albero Azzurro, una
bellissima trasmissione per bambini in età prescolare; per me una vera sfida.
Io ero già grande ma
mio fratello più piccolo lo guardava quotidianamente e talvolta mi incantavo
anche io, era un ottimo programma
Diciamo che era un programma rispettoso dell’intelligenza e
della dignità dei più piccoli. Ci ha dato grosse soddisfazioni. Da lì, non ho
più smesso di lavorare per i bambini. Ho pubblicato una piccola collana di
libri, illustrati da mia figlia Cleo, che ha più o meno la tua età, con allegate
musiche strumentali, “La musica delle cose e degli animali”, e recentemente ho musicato
due serie di cartoni animati per bambini ancora più piccoli, “Taratabong”, con
protagonisti degli strumenti musicali che comunicano suonando. Assieme a mia
moglie Cristina abbiamo scritto anche buona parte delle sceneggiature.
Bella questa
dimensione familiare della creazione artistica. Complimenti, il lavoro assume
così un significato ancora più prezioso
Mi sembra naturale lavorare coi familiari. Una volta, quando
uno nasceva in una famiglia d’artisti, veniva buttato dentro e facilmente anche
lui lo diventava.
Ho appena finito di registrare la colonna sonora di un film
a cartoni animati, “Bambini senza paura”, con la regia di Michel Fuzellier,
dedicato a Iqbal, il ragazzo pachistano che si ribellò alla schiavitù del
lavoro minorile. Dovrebbe uscire nei prossimi mesi.
Poi sto cercando di promuovere dei concerti/conferenza molto interessanti. Sono
di due tipi, uno con l’antropologa Michela Zucca, dedicato al pensiero mitico,
in cui io sviluppo un repertorio di musica arcaica, e l’altro con il professor Piergiorgio
Odifreddi, con musiche legate a tematiche scientifiche.
Ultimo ma non ultimo, insieme ai due nuovi componenti degli Area, Marco Micheli
e Walter Paoli, con i quali abbiamo formato l’Area Open Project Trio, una formazione
molto combattiva, stiamo lavorando a un nuovo disco.
Verrete anche in
Sardegna?
Me lo auguro! Sono molto affezionato alla tua terra, dove ho
carissimi amici come Simone Sassu e i Nasodoble. Se si riuscisse ad organizzare qualcosa in Sardegna ne sarei molto
felice!
Io e Patrizio abbiamo parlato ancora un po' della Sardegna, di un video che ha girato con i Nasodoble, mi ha anche detto che si è divertito a rispondere a queste domande, gli sono piaciute. È stato un confronto molto interessante, utile, da condividere e rileggere. Ogni finale che scrivo non mi convince mai abbastanza quindi non aggiungo altro, le cose importanti d'altronde son già state dette!
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